lunedì 15 maggio 2017

I segreti del naming




Oggi ti proponiamo di ascoltare il magnifico podcast Essere e avere di Maria Luisa Pezzali su Radio 24. Ascolta i primi dieci minuti della puntata dedicata ai segreti del naming e prova a rispondere alle seguenti domande: 

1. Come sono stati scelti per il mercato cinese i nomi di Cocacola, Reebok e Colgate?
2. Perché il segno può essere più importante del naming?
3. Quali sono gli errori da evitare?

4. Come si fa con i nomi intraducibili?


Con l’aiuto delle informazioni della registrazione cerca di definire i seguenti termini: 

brand essence
culture check
naming


Trascrizione

-Quanto vale il brand per nomi e prodotti? Buon pomeriggio da Maria Luisa Pezzali. Oggi a “Essere e avere. Dimmi cosa compri e ti dirò chi sei”, parleremo dei casi dei grandi marchi occidentali che cambiano nome sul mercato cinese per esplorare i segreti del naming, il ramo del marketing che si occupa appunto dello studio della scelta dei nomi  dei prodotti e dei brand. Focus sui trend dedicato invece al nuovo artigianato o artigianato d'avanguardia: quando il "fatto a mano" fa tendenza.

[…]

[3’ 50’’] - Oscar Wilde docet. Quanto pesa l’importanza di chiamarsi in un determinato modo. Per brand e prodotti vale una fortuna, soprattutto nel mercato più in espansione che ci sia: il mercato cinese.
-Divertimento gustoso, passi veloci, pulizia superiore. Ecco cosa significano in cinese i nomi dati rispettivamente a Cocacola, Reebok e Colgate. Nomi opportunamente modificati e non semplicemente tradotti a livello fonetico in mandarino. Altrimenti i risultati sarebbero stati molto meno efficaci. Chi ha sottovalutato l’importanza del nome e del suo significato profondo in Cina dove il mercato dei beni di consumo cresce del 13% ogni anno, del 25% se si parla di beni di lusso, ha sfiorato il disastro. È corsa ai ripari Microsoft, che aveva mantenuto il nome Bing al proprio motore di ricerca ignorando che in mandarino significa “virus”, cambiandolo così in Ing-bing, cioè “a colpo sicuro”. Oppure Peugeot che tradotto significa “prostituta”e ora è boom per le società di consulenza che vendono nomi adatti a brand e prodotti che decidono di scavalcare la grande muraglia.
-Questo dunque è quanto accade in Cina. Da noi invece si assiste alla personalizzazione dei prodotti di massa, la cosiddetta customizzazione che soprattutto via Facebook offrono gli stessi grandi brand, la possibilità di ricevere cioè a casa i prodotti con il proprio nome stampato sulla confezione al posto del marchio. Mi piace citare su tutte l’iniziativa di Heinz, la multinazionale dell’alimentare che in Inghilterra con l’operazione Get well soup ha offerto la possibilità  di inviare a un amico malato una lattina di zuppa personalizzata.
Nomi su misura dunque tra Oriente e Occidente. Quanto conta ancora il naming in pubblicità e nel marketing, dove puntare per non sbagliare? Lo abbiamo chiesto a Chiara Sozzi Pomati, direttore creativo dell’agenzia Future Brand.
- Il naming è sicuramente importantissimo. Il problema è che con la globalizzazione il segno forse diventa ancora più importante di quello che in realtà non sia il naming. Pensando a popolazioni intere che possono non essere in grado di leggere un nome e di conseguenza un brand bisognerebbe andare sempre di più verso un linguaggio visivo e universale. Il futuro sarà più nel segno certamente. Non vorrei fare i soliti esempi di Apple e Nike ma sicuramente loro hanno individuato la strada più corretta in un mondo che va sempre di più verso una globalizzazione, noi dobbiamo cercare di essere il più visuale possibile, ecco trovare delle icone forti in grado di trasferire l’essence delle marche prima ancora che compaia il nome della marca stessa.
- Quali sono gli errori da non fare?
- Gli errori da non fare sono cercare di esportare il proprio brand senza prima essere passati attraverso un culture check, quindi un test culturale all’estero e quindi approfondire quelli che sono gli usi e costumi e la cultura del Paese nel quale si vuole andare. Bisogna stare attenti non solo al suono, al segno, anche addirittura ai colori. Io posso fare degli esempi clamorosi in cui si andava in Paesi musulmani con dei brand colorati di verde e sapendo benissimo che il verde è il colore dell’Islam e quindi… Insomma, bisogna stare attenti a tutto.
- Le vengono in mente dei casi di successo o viceversa, dei casi di flop che hanno fatto storia e scuola in qualche modo?
- Assolutamente sì. Casi di successo sono sicuramente Cocacola che nel momento in cui ha dovuto tradurre il proprio nome in questo caso, l’ha tradotto con un fonema che in mandarino significa gusto e divertimento. La stessa cosa Heineken, grandissimo successo. La stessa Ikea nel momento in cui ha dovuto appunto esportare il proprio brand in Cina l’ha tradotto con un significato molto interessante e molto in linea con la propria essence, quindi “la casa economica”. Ci sono ahimè invece dei casi abbastanza clamorosi di flop, come Nike che si è spinta con un advertising nel 2004 che aveva come protagonisti dei dragoni che sappiamo essere abbastanza untouchable in Cina perché considerati ovviamente sacri e di conseguenza la pubblicità è stata censurata e bandita.
- Capita a volte di dover rinominare un prodotto perché il nome è stato scelto in maniera sbagliata e non ha dato i risultati sperati?
- Sì, in realtà ci sono nomi  che non sono traducibili. In questo caso piuttosto che trovare soluzioni poco interessanti sia in termini fonetici che in termini visivi, quindi ideogrammi, sarebbe meglio cercare di tradurre quella che è la brand essence, quindi quali sono i valori della marca. Il nostro mercato è abbastanza aperto. Ormai i consumatori sono abituati a leggere, parlo ovviamente del mercato italiano, a interpretare nomi esterofili. È chiaro che quando un nome è troppo poco descrittivo del prodotto che deve rapprensentare forse è il caso di fare un approfondimento.

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